Minimalismo prêt-à-porter

di Annalisa Albuzzi

E’ innegabile che l’era del photosharing e dei social network abbia contribuito a rendere straripante la fortuna della ‘fotografia minimalistica’, già di per sé ricca di suggestione e di appeal. Ma quali sono i prodromi che si celano dietro quello che ormai si può ritenere un vero e proprio ‘genere’, per altro fra i più amati?

La minimal art segnò, a partire dagli anni Sessanta, un radicale cambiamento che coinvolse non solo l’arte e la ricerca in tutte le loro manifestazioni (architettura, scultura, pittura, design, musica, letteratura e persino linguistica), ma anche la concezione stessa dello stile di vita. Il termine fu coniato dal filosofo dell’arte inglese Richard Wollheim che, in un articolo del 1965 intitolato, appunto, Minimal Art, parlava di “riduzione minimale”, riferendosi sia ai ready made di Marcel Duchamp – ovvero oggetti quotidiani isolati dal loro contesto, defunzionalizzati e rifunzionalizzati – sia alle teorie artistiche di Ad Reinhardt, tese ad eliminare tutto ciò che non fosse essenziale.

Paul Strand, Porch Shadows, 1916 – Nella sua ricerca fotografica Paul Strand realizzò immagini riconducibili al minimalismo astratto, ricorrendo ad inquadrature ravvicinate e giocando con le forme create da suggestivi giochi di luce ed ombre.

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Paul Strand, Porch Shadows, Connecticut, 1916

Per quanto concerne le arti visive, la gamma delle declinazioni individuali è variegata. Attraverso la produzione di esponenti di spicco quali Sol LeWitt, Carl Andre, Dan Flavin, Donald Judd, Robert Morris, Robert Ryman, Robert Rauschenberg e Frank Stella – profondamente segnata dalla svolta culturale impressa da Jackson Pollock e Barnett Newman – possiamo tentare di evidenziare le peculiarità teorico-pratiche più ricorrenti: l’impersonalità, l’oggettività, il rifiuto del coinvolgimento emotivo e la rarefazione degli elementi contenutistici, la rimozione di elementi decorativi ricondotti a forme geometriche primarie ed elementari, una preferenza (non unanime) per la monocromia e per la sequenza seriale.

Tuttavia l’espressione-totem a cui si ispirano i minimalisti – “Less Is More” – è in realtà una locuzione ri-portata alla ribalta da uno dei più geniali architetti di tutti i tempi, Ludwig Mies van der Rohe (il ‘copyright’ spetterebbe in realtà al poeta inglese ottocentesco Robert Browning), per sintetizzare la sua innovativa filosofia progettuale, che aveva avuto modo di perfezionare come direttore della Bauhaus: cogliere l’essenza di una struttura, senza indulgere ad inutili orpelli, ma attribuendo diritto di cittadinanza solo a quelle componenti davvero necessarie agli scopi funzionali e visivi di un edificio. Il risultato – come in ogni operazione minimalista – riverberava un’impressione di estrema semplicità, dietro la quale tuttavia, si occultavano un approccio intellettuale complesso e raffinato, oltre che la competenza indispensabile per individuare il superfluo. Ricordare la poetica di Mies van der Rohe in questa sede – un blog dedicato alla fotografia e al minimalismo nell’architettura – ha pertanto una valenza multipla.

L’affermarsi, nella seconda metà del ‘900, di un’esigenza ben definita, frutto di una reazione a correnti artistiche fino ad allora imperanti e la conseguente presa di coscienza collettiva non può far dimenticare che i primi decenni del secolo sono stati contraddistinti da un forte interesse verso un’estetica che puntava all’essenzializzazione delle forme, epitomizzata, difatti, già nell’ambito del glamour, dal celeberrimo consiglio di Coco Chanel: “Prima di uscire, guardatevi e toglietevi qualcosa”.

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Margaret Bourke-White, Untitled, ca. 1935

Margaret Bourke-White (1904 – 1971) fu il primo fotografo straniero ad avere il permesso di scattare foto in URSS, nonché la prima corrispondente di guerra donna. Attratta dalla modernità e dal progresso tecnologico (tra il 1928 e il 1930 affermava che “l’industria è il vero luogo dell’arte” e “i ponti, le navi, le officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento”), mosse la sua ricerca verso il dinamismo dell’astratto: numerose sue immagini sono una successione seriale di oggetti, quasi tesa a disvelare la nuova texture e le nuove superfici dell’era meccanica.

 

Proprio a Parigi (di Duchamp già si è detto) e, di rimbalzo, in America, si andava vivendo allora una stagione di grande creatività e fervorose sperimentazioni, dove oltre a pittori (uno su tutti: Piet Mondrian) e ad architetti, anche numerosi fotografi focalizzarono l’attenzione su geometrie e oggetti usuali, rendendoli unici attraverso un processo di sottrazione, l’uso sapiente della composizione, delle luci e delle ombre, e soprattutto attraverso uno sguardo che – per citare Edward Weston – restituisse “la vera sostanza, la quintessenza delle cose in sé, sia si tratti di acciaio lucido o di carne palpitante”.

Fu così che, a partire dagli anni ’10, a prescindere da qualsiasi ‘etichetta’ di comodo, Paul Strand, Man Ray, André Kertész, lo stesso Weston con il figlio Brett, Berenice Abbot, Margaret Bourke-White investigarono la realtà ottenendo spesso risultati che si possono considerare agevolmente antesignani delle immagini oggi intese come minimaliste.

 

Proprio meditando sui risultati di alcuni tra i nomi citati finora balza però agli occhi quanto sia labile lo scarto tra minimalismo e astratto. Non è la sola aporia. Paradossalmente, l’ampio successo che lo ha imposto all’attenzione dei media, ha contribuito a rendere più confusi e vaghi i contorni del minimal, in una sorta di deriva, per arginare la quale si è tentato da più parti di stabilire regole ben precise, quasi una sorta di manifesto programmatico. Impresa difficile, se non impossibile, considerata l’ampio ventaglio di soggetti, sensibilità e punti di vista.

Brett Weston, Oceano Dunes, California, 1947 – Figlio e collaboratore del celebre Edward, affascinato dalla possibilità di trasformare la realtà attraverso inquadrature ravvicinate e un bianco e nero assai contrastato, realizzò raffinatissime immagini riconducibili al minimalismo e all’astratto.

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Brett Weston, Oceano Dunes, California, 1947

Le peculiarità attorno alle quali si è raccolta una quasi completa consonanza prevedono una drastica riduzione degli elementi che costituiscono l’immagine, l’utilizzo di campiture cromatiche distintive e di semplici geometrie, l’iterazione di elementi modulari, la ripresa di oggetti piccoli che occupano una minima area del fotogramma (epurato, il resto, da eventuali elementi di disturbo) o di dettagli evocativi, anch’essi colti nella loro essenzialità, fino a trasformare lo spazio ‘negativo’ in un coprotagonista assoluto della fotografia o a sconfinare nello ‘zeroism’, quando nell’immagine, scandita su ampie proporzioni, pochissimo se non nulla è riconoscibile o riconducibile a una precisa realtà. Il decentramento del soggetto e il concetto di punctum, ovvero la sapiente collocazione dell’elemento-chiave entro un percorso compositivo che aiuti lo sguardo a rintracciarlo con immediatezza, senza distrazioni, conferiscono ulteriore efficacia allo scatto minimalista.

Il minimalismo fotografico, in sintesi, è dunque – sia come genere a se stante, sia come modalità di approccio – una reinterpretazione della realtà, colta anche nei suoi aspetti più usuali, una trasfigurazione del quotidiano: il che implica un processo di estrema razionalizzazione e una complessa ricerca dell’essenziale, immediata e semplice solo apparentemente.

Per approfondire e sfogliare le immagini di questi grandi maestri del passato, anteriori all’era minimalista e precursori del genere:

Paul Strand – Wall Street, 1915

Paul Strand, Porch Shadows, 1916

Andrè Kertesz, The Fork, 1928

Brett Weston

Sulla Minimal Art e il Minimalismo:

Minimal Art e Minimalismo

 

 

 

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